Pubblichiamo il contributo, riguardante la Scuola di Politica “Crescere al tempo dell’ISIS” del 23 febbraio 2016, di Maria Paola Colombo, autrice de “Il negativo dell’amore” (2014, Mondadori) e de “Il bambino magico” (2016, Mondadori). La ringraziamo per questo bell’articolo e per averci dato la possibilità di pubblicarlo.
Avevo sei anni ed era domenica. Una domenica qualunque, vicino al mare. Giocavo con una bambina capace di fare la ruota molto meglio di me, per la precisione: tre perfette ruote di fila. Quel tipo di abilità che a sei anni genera infinita stima. Mia madre venne a chiamarmi: era l’ora della Messa.
Anche tu vieni a Messa? – chiesi alla Reginetta delle Ruote.
No –
Perché ci sei già andata? –
No –
Perché ci vai pomeriggio? –
No. Io non ci vado mai a Messa. Noi siamo atei – disse, sorridendo quieta, come dopo uno dei suoi esercizi perfetti, tanto da sembrare facili.
Io rimasi pietrificata: non avevo mai considerato, fino ad allora, la possibilità che esistessero bambini che non vanno a Messa.
L’arrivo degli atei nella mia vita, fu una rivoluzione copernicana.
Accadeva trent’anni fa. Berlino era ancora divisa in due da un muro, Gorbaciov non aveva ancora stretto la mano a Reagan (e neppure aveva baciato sulla bocca Honecker), non c’erano ancora state la Guerra in Slovenia, la Guerra del Golfo e quella del Kosovo. Il Medio Oriente era un luogo caldo, ma non ancora una polveriera, Nelson Mandela era ancora in prigione e Lehman Brothers prosperava. Le torri gemelle svettavano con i loro 110 piani nel cielo di Manhattan, simbolo di un’ascesa inarrestabile, sfida alla gravità terrestre. E poi i telefoni erano immobili: posati sul mobiletto vicino all’ingresso o nelle cabine della Sip. Non esistevano altri operatori telefonici che ti chiamassero mentre scoli la pasta per proporti incredibili offerte, nuovo abbonato! C’era solo la SIP. Non esisteva internet e tutti, in macchina, avevamo cartine geografiche del Nord e Sud Italia. La famiglia Robinson ci educava dall’America a pensare che le persone di colore, ancora poche, fossero tendenzialmente simpatiche. Li chiamavamo “Vu Cumprà”, un neologismo napoletano, che, per quanto contenesse molta semplificazione e un po’ di sarcasmo, focalizzava però l’attenzione sul tipo di attività che molti di loro svolgevano piuttosto che sull’origine o la non appartenenza (extra-comunitario).
Avevo sei anni e, mentre nel mio piccolo mondo approdavano gli atei, immediatamente seguiti da E.T., nel mondo degli adulti prendevano dunque forma eventi e processi sostanziali destinati a cambiare non solo gli assetti politici, ma anche, e soprattutto, la vita di tutti i giorni.
Oggi, in un’epoca di alto traffico di merci, informazioni, persone e cultura, l’alterità è un’esperienza densa e quotidiana. Se trent’anni fa si poteva arrivare anche a sei, otto, dieci anni nella convinzione (arrogante e tenera) che il mondo fosse fatto a nostra immagine e somiglianza e gli africani abitassero perlopiù in Africa, e i cinesi in Cina, oggi un bambino di prima elementare, ma anche già all’asilo, ha compagni che provengono dal Marocco, dall’India, dalla Cina, dall’Algeria, dal Senegal e dal Pakistan. E sono cristiani alcuni, ma anche: protestanti, mussulmani, induisti, buddhisti e atei.
L’incontro di giovedì 24 febbraio alla Barriera Albertina è partito da qui: dai bambini e dalla scuola. Perché è nell’educazione alla relazione con l’Altro che il mondo si gioca le sfide del futuro, e anche quelle del presente. Paolo Pascucci è uno storico delle religioni, vicepresidente dell’associazione UVA – Universolaltro. Universolaltro promuove, nelle scuole elementari e medie, la conoscenza e la familiarizzazione con le religioni più diffuse al mondo, con i loro usi e costumi, le festività, il ruolo dell’uomo e della donna. “Se da un lato il ministero finanzia alcuni dei nostri progetti”, dice Paolo, “Dall’altro non si arriva ad un riconoscimento formale che porti, ad esempio, all’integrazione nei programmi scolastici”. Eh sì, perché le attività didattiche di UVA vengono svolte all’interno di ore, sottratte ad altre materie. Eh sì, perché i programmi ministeriali dei bambini del 2016 sono, per materie di studio e contenuti, grossomodo gli stessi di quando le elementari le facevo io appunto, trent’anni fa, quando ancora l’ateismo era una stranezza e E.T. faceva anche un po’ paura.
E dunque, il primo punto cruciale è: abbiamo bisogno di nuovi strumenti culturali per affrontare un contesto mutato e perché questo contesto non diventi un problema, ma una risorsa. Solo in un sistema educativo gretto e non attrezzato la presenza in una classe di bambini da tutto il mondo diventa un rischio piuttosto che un’opportunità.
E, sicuramente, di questi strumenti non hanno bisogno soltanto i bambini. Meno conosciamo e capiamo quello che sta accadendo (ovunque e comunque ci riguarda, nell’economia e nella politica globalizzata), più ci sentiamo impotenti e minacciati dagli eventi, più abbiamo paura, più ci orientiamo verso la semplificazione e lo stereotipo, più ci aggrappiamo a ciò che siamo in opposizione a ciò che non siamo. Perché in qualche modo si deve pur sopravvivere nel caos e perché è più facile individuare una sola causa a tutti i problemi e riversare su questo bersaglio tutta la rabbia.
E’ già successo molte volte nella storia, succederà ancora. A posteriori è sempre stato possibile, con il senno di poi di cui sono piene le fosse (comuni), fare analisi retrospettive. Ma è quando hai paura e l’altro diventa una minaccia che ti dovresti fermare. Hai paura perché ci sono guerre ovunque, attentati improvvisi, buchi nell’ozono e scioglimento della calotta artica, un malato oncologico per famiglia, hai paura perché hai un lavoro sottopagato o non ce l’hai proprio, o ce l’hai tu ma forse non ce l’avranno i tuoi figli, allora, in quel preciso momento, sei disposto a barattare la libertà (di pensiero innanzitutto) con un po’ di ordine e sicurezza.
Dunque, certo: l’”Islam è una religione violenta”, “i mussulmani sono tutti votati alla jihad che è la guerra santa di distruzione (fisica) degli infedeli”, “noi li ospitiamo e gli diamo pure la cittadinanza e, magari un lavoro che, peraltro prima dovremmo pensare a darlo ai nostri, e loro ci ricompensano con monete al tritolo”. “Ci vogliono invadere e uccidere tutti”.
E’ vero. Verissimo. Se non conosci l’Islam al di là della semplificazione propagandistica, non può che essere così. Eppure, se ti fermi, lo capisci che non può essere questa la radice di tutti i problemi. E, poi, tu con quanti mussulmani hai parlato? Hai mai letto il corano?
Paolo Pascucci ci guida in un viaggio affascinante dentro la complessità di una delle tre grandi religioni monoteiste, e smonta uno dopo l’altro gli stereotipi: dire che l’Islam è Daesh (Isis), è esattamente come sostenere che tutti gli italiani sono mafiosi, o che tutte le bionde sono stupide.
E poi: chi sono questi ragazzi che si sono fatti saltare per aria a Parigi? Giovani con la cittadinanza francese, immigrati di seconda generazione, senza neppure l’accento, venuti fuori dalle banlieue con in corpo più rabbia che tritolo. Ma per capire questa rabbia occorre, nuovamente, andare oltre tanti giudizi che abbiamo sentito esprimere all’indomani degli attentati e, tra tutti, di nuovo: “gli abbiamo dato persino la cittadinanza”.
Per capire basta ascoltare: Yassine è il presidente di Mobadara, associazione di ragazzi marocchini di religione mussulmana. Parla con una voce dolce e inclinata all’ironia. Racconta di come lui sia nato in Italia e, ogni volta che torna in Marocco per le vacanze estive, i parenti lo guardino come uno forestiero in vacanza: “L’Italiano”. “Ma in Italia io”, dice Yassine, “ Sono solo il marocchino”. Ridiamo tutti, di questa fantozziana situazione. Ridiamo anche se non c’è niente da ridere: Straniero nel paese delle radici, Straniero nel paese dove abita, Yassine, come molti figli di immigrati, vive l’ “estraneità” come unica patria. Lui e i suoi amici dell’associazione si occupano di integrazione: aiutano i figli dei propri connazionali ad imparare l’arabo, perché possano dialogare con la storia da cui provengono, e insegnano alle madri e ai padri a parlare l’italiano, perché “Una mamma che non può leggere i quaderni e il diario dei figli e non è in grado di parlare con la sua maestra, come fa?”.
Mobadara collabora con la Comunità di Sant’Egidio e sta cercando la strada del dialogo associativo per organizzare eventi interreligiosi. Ma immaginiamo che, al posto di Yassine e della sua meravigliosa ostinazione a superare le difficoltà e costruire relazioni, immaginiamo che al suo posto ci sia un ragazzo delle banlieue, uno cresciuto ai margini, uno a cui è stata data una cittadinanza legale, ma non una cittadinanza reale. Immaginiamo che il degrado quotidiano, gli sguardi di diffidenza e sospetto, la distanza lo respingano ogni giorno di più, fisicamente e metaforicamente, nei vicoli del ghetto. La legge del suo vissuto è diversa da quella del Legislatore: il Legislatore dice “sei un cittadino”, ma la comunità sancisce l’esclusione dalla Città. Allora questo giovane, sradicato e impossibilitato a mettere radici in una nuova esperienza identitaria, vive la stessa snervante condizione di chi sia condannato ad abitare l’attesa, per sempre, davanti ad una porta chiusa. E davvero possiamo stupirci se ad un certo punto comincia a sfondarla a calci, a inveire e odiare e disprezzare quelli che abitano la casa oltre la porta?
E’ anche interessante osservare come la propaganda di Daesh parli a questi ragazzi con la lingua di Hollywood: un eroismo americano rovesciato e molto pulp, dove i cattivi di American Snyper diventano i buoni, i giusti. Perché, in verità, questi ragazzi, della propria cultura di appartenenza, non sanno granché. Sono cresciuti a film, più che a Corano. Il loro islamismo è una “finzione”, una ri-costruzione fantastica di un’autenticità culturale che non hanno vissuto: un sogno violento di liberazione e riaffermazione.
Qualcuno dalla platea domanda a Paolo Pascucci che ne pensi del modo in cui l’Europa sta facendo fronte all’ondata di migranti, se le azioni poste in essere siano solo emergenziali o strutturali. E’ una domanda retorica: la risposta la conosciamo tutti. E ci riporta al cuore del problema: in realtà, sono quasi vent’anni che tutte le associazioni non governative lanciano grida di allarme, sollecitando il dibattito politico, e sono quasi vent’anni che i governi si arrabattano con soluzioni tampone. In altri termini, tutti gli osservatori sono a conoscenza, da quasi due decenni, che sarebbe accaduto quello che sta avvenendo. Era prevedibile e previsto. E’ evidente che in tutto questo tempo l’Europa avrebbe potuto porre in essere misure strutturali, azioni, innanzitutto, educative. Oggi avremmo già una prima generazione di giovani adulti, figli di Europei e figli di migranti, attrezzati per una convivenza nuova e proficua.
Invece siamo ancora qui a decidere se farli entrare o no. Pro e contro l’accoglienza. Concentrati su un dibattito che neppure ha più senso: più alto sarà il muro che erigeremo, più feroce sarà lo sfondamento della diga, più terrificante l’impatto delle forze oppositive che gonfiano ai due lati del muro.
Sprecare energie su un falso problema, è un modo sciocco di prendere tempo e guadagnare voti. Il tema, ormai, e lo è sempre stato, non è “se”, ma “come”. E una cosa possiamo mettere in conto con sicurezza: sarà difficile. La Germania che fa un gesto di generosità nell’accoglienza di profughi Siriani e impazzisce dinnanzi ai fatti di Colonia pecca di ingenuità. A parte il fatto che il numero di arrestati provenienti dai rifugiati si è rivelato marginale, è evidente che in assenza di processi culturali pregressi e profondi accadranno ancora fatti come quelli di Colonia e Parigi. Occorre tempo perché acquisiscano stabilità nuove forme di pensiero, di convivenza, di relazione. Di inclusione.
Ma dobbiamo cominciare. Ed è quello che abbiamo fatto la sera del 24 febbraio: associazioni italiane e islamiche, ragazzi italiani e mussulmani. Sarà faticoso, difficile e non immediato. La costruzione di qualunque cosa, implica un tempo in cui gli occhi non si appagano di nessun risultato, anzi: si scava, si scende, si allarga un buco. Quello delle fondamenta. Ma la fatica dei costruttori è sostenuta dalla visione nitida della costruzione compiuta, nutrita dalla bellezza che sarà.
E questo è quello che vogliamo essere: costruttori della nuova Città. Costruttori di ponti, non di muri.